Raccolti nello spazio esterno del Tempietto laico che è lo studio di Mataro da Vergato, siamo invitati a disporci, come dinanzi a una tragedia greca, alla celebrazione di un rituale catartico. Una scintilla accende l'opera di Francesco Diluca che inizia la sua lenta e mite combustione, quasi cadenzata dall’azione Mousiké di Da Vergato che canta originali in greco antico accompagnato da una lyra da lui stesso creata. Facendosi “opera vivente”, intona Inno al Sole quale tributo alla resilienza nella difficile situazione globale attuale.
L’energia che investe il pubblico è la stessa che percorre l’“opera morente” di Diluca, che all’elidersi del suo rivestimento epidermico, i cui filamenti di ferro tornano polvere, lascia intravedere intatta la propria struttura filiforme, una geografia di intrecci che si configura come condotto di linfa vitale. Nelle opere presenti in studio la fusione fra anatomia umana e mondo vegetale e animale si fa più evidente, in un simbolismo che trasforma vene e arterie in rami. Quattro sculture rimandano all’atto della generazione e alla possibilità della rinascita; a spiccare è la figura di una partoriente dal ventre gravido di foglie verdi, colorate dall’ossidazione del rame di cui sono composte. Il racconto di una metamorfosi da antropos a natura è al centro anche della monumentale opera di Da Vergato. Nell’“affresco” retroilluminato a led e realizzato con una tecnica di pittura digitale, due corpi ideali incarnano il mito ovidiano di Apollo e Dafne: se il dio, raffigurato in tutta la sua possanza machista, assennato, rincorre la sua infatuazione, la ninfa, pur di sfuggire al tentativo di stupro, supplica gli dèi di essere trasformata in pianta, rinunciando a un’esistenza umana.
Sotto il segno di una comune riflessione sul corpo, sulla sua ontologia e rappresentazione, le opere di Diluca e Da Vergato dialogano e si rincorrono in un progressivo circuito di dissolvimento e reincarnazione, fra dimensione materica e immateriale, unite nel perenne conflitto fra Eros e Thanatos. Qui, i corpi divengono cenere, si radicano, intraprendono un processo di trasformazione che li avvicina alla Natura quale unica fonte di salvezza; fonte da cui l’uomo si è distanziato sempre più, perpetrandole violenza al pari che alle donne e alle altre minoranze. Non ci resta allora che assecondare la caducità e l’impermanenza della vita stessa, vivendo il nostro ardere come parte di un più grande flusso in eterno divenire.