Quella della tessitura è un’arte molto antica, che apparve nella preistoria non soltanto per rispondere a esigenze materiali dell’uomo, quali il vestirsi e il difendersi. Era inoltre una pratica strettamente legata al culto e alla simbologia della Grande Dea, venerata in diverse civiltà del Paleolitico. Non a caso Buffie Johnson, pittrice statunitense, afferma che una delle immagini più potenti con la quale la Grande Madre veniva rappresentata, era quella dell’ “eterna tessitrice”.
Questo potrebbe forse spiegare come la tessitura sia stata sempre associata al reame del Femminile: è un motivo che sopravvive nelle favole, ma che si ritrova anche nella mitologia, in figure come Arianna, Aracne e Atena, Penelope.
Proprio Penelope è stata presa come simbolo per Attesa a un filo, una mostra tutta al femminile accolta in Laboratorio VI.P., lo studio di architettura, design e restauro di Francesco Rivolta, che ospita iniziative di giovani artisti. Per l’occasione le tre curatrici, Mariarosaria Cavaliere, Federica D’Avanzo ed Erika Gravante, hanno lavorato con tre artiste il cui punto in comune è proprio l’utilizzo del filo nella loro pratica artistica. Ciò è percepibile fin dall’inizio, prima della mostra stessa, perché le porte di entrata e uscita sono incorniciate da un reticolo bianco che percorre anche il pavimento, costringendo il visitatore a varcare una soglia fisicamente e a entrare, mentalmente, nel racconto della mostra.
Dentro, Eleonora Gugliotta espone Ambienti, una serie fotografica di posti abbandonati in cui l’artista realizza installazioni con fili colorati, che danno una nuova energia ai luoghi e che rendono manifesta la presenza dell’artista stessa; altre nove fotografie, invece, ritraggono fitte ragnatele. Anche il ragno infatti è una antica tessitrice e, come Penelope, sa attendere. L’attesa è il secondo elemento che lega la mostra: le artiste, a causa del lockdown, si sono confrontate con la condizione di un tempo dilatato e hanno tradotto la loro riflessione nella pratica artistica.
Un lavoro di Mahnaz Ekhtiary, per esempio, si chiama Lockdown-shirt ed è una maglia bianca che si trasforma in qualcosa d’altro: non può essere indossata perché è appesa alla parete e perché le parti sono cucite l’una con l’altra con fili neri; perde la sua funzione originale come è successo a molti oggetti durante la pandemia.
Infine la terza artista che si incontra in mostra è Laura GuildA. Tra le sue opere esposte, l’attesa è rappresentata soprattutto in un quadro-telaio composto da differenti tessuti trovati in casa, intrecciati tra loro giorno dopo giorno. Sul bianco e l’oro dei filati risaltano in rosso le parole latine dei sette vizi capitali, che fanno sembrare l’opera una sorta di icona religiosa con la quale l’artista ha intessuto un rapporto arcaico e quotidiano.
Tre eterne tessitrici, dunque, che con le loro riflessioni e la loro manualità hanno sperimentato il tempo dell’attesa come una forza dinamica, attiva e soprattutto generatrice.