Giuseppe Buffoli, Joykix, Eva Reguzzoni, Danilo Vuolo
Giuseppe Buffoli, Joykix, Eva Reguzzoni, Danilo Vuolo
a cura diRossella Moratto
Uccidere il figurativo. Partendo dalla scena del delitto gli artisti compiono un'indagine sulla decostruzione delle logiche della rappresentazione per cercare la pura presenza del gesto, dell'oggetto e del segno intesi come possibilità di comunicazione e testimonianza.
L’impellenza della necessità spinge ad abbandonare il già noto e a spingersi verso territori incerti. Il bisogno è quello di dare nuova autenticità e verità alla forma, distruggendone le sovrastrutture narrative e normative. Per farlo bisogna compiere un atto estremo: uccidere il figurativo. Partendo dalla scena di quel delitto – Blood on the Floor è la scena di quel crimine – Giuseppe Buffoli, Joykix, Eva Reguzzoni e Danilo Vuolo compiono un’indagine sulla decostruzione delle logiche della rappresentazione per cercare la pura presenza del gesto, dell’oggetto e del segno intesi come unica possibilità di comunicazione e testimonianza. Privilegiare la presentazione sulla rappresentazione sull’esempio di Francis Bacon che estrae la “figura” esponendola clinicamente sul tavolo autoptico. Un’operazione di chirurgia sperimentale sulla figura che la spoglia, la seziona, la decostruisce, la scandaglia nel profondo per poi ricrearla come fa lo scrittore – citando Gilles Deleuze – che inventa «nella lingua una nuova lingua, una lingua, in qualche modo, straniera. Trascina la lingua fuori dai solchi abituali, la fa delirare.» Nello stesso modo qui si interrompe il gioco del rimando, si azzerano i nessi logici e si elimina la concatenazione drammatica, si procede episodicamente secondo logiche di autoalienazion e che prescindono da ogni necessità di verifica comunicativa.
Blood on the floor delimita una dimensione affrancata dalla logica comune, dalla costrizione della concatenazione causa-effetto, un teatro di attori-testimoni che coabitano in una relazione di prossimità, uniti nel comune destino di essere singolari accadimenti dei quali, contrariamente a quanto avviene nell’esperienza quotidiana, non dobbiamo cercare forzatamente connessioni e legami ma solo constatare la loro esistenza.
La figurazione – intesa come rappresentazione di un modello o di una narrazione altra-da-sé – è stata uccisa – esistono solo figure.
Giuseppe Buffoli per esempio, parte dal corpo e dal processo costruttivo della scultura per disfarlo inesorabilmente, mettendolo a nudo e svelando l’arcano – mostrando il calco e la matrice, rivelandone cioè la genesi – e allo stesso modo disfa il corpo e ne estrapola l’organo che sta all’interno che nella solitudine del lacerto si trasforma e diventa carne cioè materia prima. Forme informi, instabili stabili, finite e non finite colte nel processo del farsi attraverso un’operazione di selezione e sgrezzamento. Analogamente Eva Reguzzoni maneggia creta cruda sulla quale registra direttamente per impressione sensazioni o traumi, tracce sismografiche che non si possono tradurre in metafora. Sono resti, brandelli smembrati, destinati alla lenta dissoluzione segnata dall’evaporazione della linfa liquida che li impregna. Joykix invece è un occhio senza testa che si triplica, mera tensione scopofilica schizofrenica negata dall’impossibilità di vedere se non i dettagli di un’esplorazione convulsa, non direzionata: apparizioni monoculari intermittenti senza alcuna seduzione, anzi quasi repulsive, percorse dal brivido di rumori striduli e fastidiosi che emergono a tratti in sottofondo: segnali indecifrabili di un linguaggio estraneo. Una perlustrazione nel sottosuolo da dove sembra provenire anche una voce, quella di Danilo Vuolo che azzera la sua azione performativa nella sola parola, dal timbro artificiale con cui declama un discorso solo apparentemente intelligibile, il cui senso si destruttura nell’ascolto dell’affabulazione e della reiterazione. Il tentativo di racconto abortito nell’impossibilità di narrare dice di un’identità alienata e inafferrabile, dai lontani rimandi beckettiani che esprime solo un’urgenza primaria, solipsistica. Sono tutti frammenti di un corpo senza organi, privo di organizzazione interna e di intento comune, abitato da tensioni che si esprimono senza mediazioni nella loro cruda evidenza. Sono alterità che declinano ipotesi ai limiti della figurazione, portatrici di un realismo che, citando ancora Bacon «nella sua espressione più profonda è sempre soggettivo» perché «quando dipingi qualcosa non stai dipingendo soltanto quel soggetto ma insieme stai dipingendo anche te stesso. Perché la pittura è un atto che si fa in due». E qui pittura sta per scultura, installazione, vocalità, ipotesi di figurazione che non raffigura il reale, non lo rappresenta ma lo presenta nell’unico modo possibile cioè in rapporto con la propria individualità, qui e ora, nel territorio di confine tra l’io e il mondo ma contemporaneamente fedele alla natura propria di immagine.