Entrati nello spazio Pepe 36, si intuisce subito di essere capitati in una situazione quanto meno delicata, una di quelle che – per il quieto vivere – si dovrebbe evitare allontanandosi piano piano, ma con passo fermo.
“Non voltarti” – ti dici- “vai via da qui: non sporcarti le mani, non guardare. Vai oltre!”. Ma questa volta c’è una forza attrattiva che cattura a sé, un’atmosfera strana ma non inquietante, mistica ma non spaventosa. Sei immerso in un’opera che ben interpreta il senso del tra-guardare e, citando Emilio Garroni, diventa “siepe leopardiana” che non si esaurisce nei suoi aspetti figurali e si spinge verso il non- osservabile. Ti porta altrove perché il suo significato non finisce lì. Ti porta a rompere quella tenda che vedi davanti a te, ad annullare le distanze. E, così, ti ritrovi in scena. La tenda, che accoglie la proiezione di una reinterpretazione del quadro Blood on the floor di Francis Bacon, diventa una scena teatrale, la *skené del teatro greco. Ora sei immerso e non puoi sottrarti. Piano piano, allora, metti a fuoco tutto e cerci di capire quale sia il tuo ruolo e dove precisamente ti trovi. Non hai troppo tempo per farlo, perché, subito, vieni segnato con un rossetto rosso. Le tue labbra si infiammano o si riempiono di passione? Cerchi di capire quale valenza simbolica dare a quel colore. Ci metti un attimo. Poi, riconosci che è sangue. Tu sei testimone di un atto criminoso. A te è chiesta la parola, devi prendere parte. Non puoi andare via con indifferenza. Un crimine, hai davanti. Ma non capisci che cosa sia stato commesso. D’improvviso ti accorgi di stare calpestando un tappeto rosso che sembra aver accolto il gocciolare del sangue del quadro di Bacon.
Sei testimone di qualcosa che non vedi, ma che senti presente. È morta la figurazione. È stata uccisa la rappresentazione. C’è posto solo per la presentazione. Finalmente, in un mondo così ricco di immagini, così etereo, diffuso e liquido si dà spazio alla materia, all’atto fisico, all’istanza, al qui e ora. Puoi dire: “ci sono. Sono presente. Sono testimone: vedo, sento, percepisco, mi interrogo, do il mio contributo per risolvere la scena del crimine”.
Proprio come in un’indagine, non sono chiari gli autori/attori: le opere dei quattro artisti non sono, infatti, accompagnati da una didascalia che ne rivendica la proprietà. Tutto è de-costruito, quello che importa è la presenza del gesto, l’indagare il come senza creare legami inesistenti tra le cose. Ecco, quindi, che tutti i tuoi sensi sono chiamati a collaborare. Giuseppe Buffoli scava nell’ udito e ne presenta un calco: ti mostra, in scultura, quanto sia complicato ascoltare veramente. Eva Reguzzoni ti dice quanto puoi fare con le mani, quanti segni sono impressi in te e raccontano quello che sei. Danilo Vuolo con il suo gesto presenta solo voci, quasi appartenessero a una performance totalmente smaterializzata e decostruita. Ti ricorda che sei immerso in una sovrabbondanza di parole e di linguaggi spesso così invasivi da impedirti di chiederti chi sei e cosa vuoi essere. Allo stesso modo, Joykik diventa il tuo occhio e, con i suoi passaggi schizofrenici, rende presente la sovrabbondanza di immagini alle quali sei sottoposto. Ti chiede di fissare lo sguardo su un dettaglio, su un piccolo gesto. Ti chiede di mettere, in quello che vedi, tutta la tua attenzione e cura. Ti chiede di esserci. Ti chiede di abbandonare ogni indifferenza.