Via Grazioli 16 è una ex officina ora riconvertita in studio dove le ricerche di quattro giovani artistз, molto diversз per attitudini, si sviluppano in maniera estremamente personale. Anche se all’apparenza queste strade sembrano viaggiare parallele e indisturbate, ci sono momenti in cui inevitabilmente finiscono per incontrarsi, incrociarsi, attraversarsi. Mi sembra che il festival di Walk-In Studio abbia rappresentato un’occasione perfetta di dialogo, che forse è nato in questo contesto preciso o che forse qui è giunto a una piena maturazione. Gli/le artistз non hanno optato per un concept di mostra specifico ma hanno scelto di compiere un gesto tanto più rischioso quanto coraggioso: semplicemente esporre sé stessi. Questo ha reso necessario ripensare i propri lavori e la loro collocazione nello spazio in relazione agli altri, evidenziando quelle affinità che forse gli/le artistз stessз non avevano mai saputo cogliere.
Sulle mensole dello studio sono posti i lavori di Paola Caravati: vasi in argilla refrattaria il cui fascino, per l’artista, è intrinsecamente legato alla possibilità di dare forma al vuoto, modellando e stratificando la sostanza terrosa in un pullulare di escrescenze materiche che reclamano il loro spazio. Buchi e protuberanze tornano anche nelle opere di Fabiola Skraqi, questa volta in relazione al corpo: le sue tele offrono aз spettatorз uno sguardo diretto all’interno di una bocca umana. L’interesse per la cavità orale, che in senso metaforico esemplifica la capacità di sapersi guardare dentro, è strettamente personale e nasce per l’artista in un periodo di degenza in seguito a un’operazione alla mandibola. I lavori di Matteo Capriotti sono invece incentrati sulla sfera dell’infanzia: su una parete affigge una serie di riproduzioni a pastelli di disegni realizzati da bambino e conservati dalla madre fino a questo momento, mentre poco più distante posiziona tre tele di piccolo formato che, sfumando dall’azzurro al blu scuro, sembrano raffigurare i diversi livelli del mare. I dipinti sono delimitati da una cornice curvilinea nera in cartone e gesso e sono descritti come la rappresentazione visiva della batofobia: la paura estrema e irrazionale della profondità, molto simile al terrore del buio. In un gesto quasi catartico, Capriotti illumina questa oscurità arricchendo la cornice con una distesa di stelle che ricordano gli adesivi fluorescenti per bambini. Concludono l’esposizione le grandi tele verdi di Lorenzo di Lucido: qui il colore si stratifica sulla superficie pittorica creando una serie di riflessi che mettono in gioco la percezione visiva, in un omaggio a quella complessa macchina che è l’occhio umano.