Le residenze d’artista sono, solitamente, un luogo di sperimentazione e condivisione, un posto dove esplorare e, tante volte, superare i propri limiti. Sono, o dovrebbero essere, un modo di abbattere la competizione che troppo spesso prende posto nella scena artistica e di far sì che il collettivo prevalga sull’individuale: lo studio diventa luogo di confronto e scambio, non più il posto isolato di produzione. Il mito dell’artistə che crea in uno spazio incolume viene sostituito dalla contaminazione dei lavori, dalle ricerche che si sovrappongono e si arricchiscono a vicenda, pur sempre mantenendo le individualità delle pratiche.
Sotto questi presupposti le porte di Viafarini si aprono al pubblico un’altra volta per un open studio, ora in occasione di Walk-in Studio. L’impressione, quando lo spazio si apre aз visitatorз, è che i lavori esposti dз quattordici artistз in residenza a VIR attualmente — Viafarini-In-Residence — riverberano tra di loro e si relazionano molto oltre le prossimità spaziali. Dall’archivio quasi scientifico di dipinti astratti di Chiara Ventura, alle immagini ingrandite di epidermidi botaniche di Emanuele Caprioli, passando per l’installazione di Bea Roggero Fossati, composta da fotografie, sempre ingrandite, dalla corteccia di alberi provenienti dal suo giardino di casa scattate durante i lockdown e incollate su pezzi di ceramica che sembrano cadere dall’alto, quasi come un’esplosione catturata nel suo momento apice. Dai quadri di Bislacchi, che utilizzano la tela e il telaio per uscirne completamente dagli schemi della pittura classica, ai dipinti in divenire di Luca Zarattini. Da un dipinto sul muro di Matheus Chiaratti, che ritratta San Sebastiano come icona gay, affiancato da una lettera originale firmata da Cocteau e dalla produzione più recente di sculture in ceramica dell’artista, a Silvia Mantellini Faieta, che indaga la soggettività maschile a partire dalla figura generica del padre, avvalendosi anche di esperienze di altre persone condivise con l’artista. Da Margherita Mezzetti, Greta Pllana e Silvia Paci, che partono dalla pittura per esplorare le possibilità di pratiche artistiche postmediali, a Shaoqi Yin, che ha mappato uno specifico spazio urbano lasciandosi guidare da un oggetto e dalla sua produzione di casualità, passando per Sofia Bordin, quale pratica intreccia spazi organici e artificiali, attraverso la produzione di sculture e installazioni. Da Shuai Peng, che parte dall’albero genealogico della propria famiglia e da oggetti personali, tramandati da generazioni, per presentare la sua ricerca, a Federica Zianni con le sue sculture che ricorrono a materiali artificiali, come lacci emostatici e camere d’aria, per esplorare questioni come identità e patrimonio culturale nel contemporaneo.
Opere eterogenee plasmano lo spazio dello studio, aperto e in continua trasformazione, e sembrano esperimentare modi di stare insieme. Forse ora, nel momento storico attuale, tutto ciò abbia ancora più senso.