Una vecchia bretone con un cappello e un ombrello di carta di riso e canna di bambù, capitani coraggiosi, furbi contrabbandieri macedoni, gesuiti euclidei vestiti come dei bonzi per entrare a corte degli imperatori della dinastia dei Ming. Associazioni scritte da Franco Battiato negli anni 80, che sembrano essere state racchiuse nelle campane di vetro di Laura Claus, in cui objets trouvés si uniscono a simboli sacri e a rielaborate forme antropomorfe, creando associazioni inopportune. La loro sfacciataggine risiede nell’ imposizione di forme e legami apparentemente causali, un concedersi alla libertà del feticcio formale che, come spiega Laura, a volte è una liberazione delle proprie forme interiori. Le sculture sono chiassose, ma non parlano, se non attraverso la lettura di narrazioni distopiche che l’artista associa ad ogni opera. Laura precisa che le letture non sono qualitativamente perfette, che ci sono rumori di fondo, interferenze non calcolate e poi lasciate libere di esistere, evitando la dittatura della pulizia di registrazione. Penso che d’altronde, è grazie all’intromissione dei corpi estranei che si forma la perla in natura.
Lo spazio dell’intromissione e la sua possibilità di esistenza vengono condivisi anche dall’opera di Giulia Roncucci. Un vecchio telescopio con un orecchio di un qualcuno nessuno, mondi nuovi con satelliti di luce, vetri trasparenti vestiti come dei muri per entrare in contatto con l’Altro. Il dispositivo creato da Giulia non si configura come un’opera che utilizza un significante, ma come un medium autonomo, per citare McLuhan, un messaggio. Tre vetri trasparenti diventano una nuova barriera di protezione, una raffinata liquefazione del muro di Berlino, e consentono di osservare una mano confusa tra automatismi gestuali di scrolling da social network e codice morse, una riproduzione in piccola scala della facciata del palazzo visibile dallo studio, che riprende nel suo moto rotatorio orario il movimento di social come Tik Tok, e una proiezione della terra interferita dall’ombra di una mano girevole orfana di un dito e che tiene una lente, associazione casuale condivisa con l’immaginario di Laura Claus.
Qui l’installazione parla, ma non dice niente, voci di rifugiat3 e frasi non sense in lingua cinese che rievocano i messaggi in codice trasmessi da Radio Londra durante il secondo conflitto mondiale, si mischiano a suoni presi dall’ambiente urbano in diretta; i suoni esterni si attaccano all’opera, così come molluschi e detriti marini si agglutinano a I bambini morti del Titanic di Laura Claus. Il Dispositivo#2 (Una nuova coscienza) che concede l’entrata a pochi visitatori alla volta e in un ambiente completamente buio, inserisce lo spettatore in un medias res letterale, nel mezzo dell’installazione. Da diversi punti dello studio i tre vetri e le proiezioni appaiono in modalità differenti e per la prima volta, il site-specific dell’installazione si adatta non solo allo spazio, ma anche a me stessa. Un coscienza chiusa che cerca e chiede aiuto all’Altrə con un linguaggio segreto, un qui ed ora del cortile su cui affacciano condomìni borghesi e residenziali, una coscienza che si muove dall’interno all’esterno. E io in mezzo alla luce degli apparati, che cerco di capire dove mettermi per percepire il centro di gravità permanente.