Oggi era una giornata ventosa a Milano ed è stato quasi paradossale che Studio Ambulante, realizzato da Rebeca Pak, fosse un display performativo concretizzato in un paravento.
Salendo le scale della metropolitana, alla fermata di Piazzale Gambara, mi sono trovata di fronte ad un oggetto che si presentava simultaneamente come opera e spazio di lavoro, in una dimensione ibrida, fluida, con l’intrinseca possibilità di essere ogni volta differente, sempre in cerca di una nuova identità. L’opera, che trova la sua ispirazione in un paravento appartenente alla famiglia paterna di origine coreana – stupisce che sia conservato dalla madre brasiliana- rappresenta per l’artista la possibilità di ribadire la sua posizione riguardo al concetto di “identità”: questa è l’instabile e plastico risultato di una costante rinegoziazione tra riferimenti appartenenti a culture diverse e, quindi, per la sua condizione di eterna transizione, è un mezzo attraverso il quale destrutturare i paradigmi costruiti su di una logica di ordine binario.
Uno dei più grossi fraintendimenti fra l’istituzione-museo e la pratica degli artisti contemporanei è quello che viene dal considerare il museo come necessario luogo-casa delle opere d’arte.
Studio Ambulante mette in atto una riflessione sullo spazio di lavoro, soffermandosi sulla difficoltà di trovare un luogo in cui dedicarsi alla propria produzione artistica. Lo studio quindi smette di essere uno spazio confinato all’interno e si sposta nella città. Potrebbe trovarsi in luoghi qualunque, molto più densi di potenzialità conoscitive, meno neutralizzanti e più connotati, quindi più veri e interessanti, consentendo a chiunque passi in quel momento di potervi partecipare ed esserne coinvolto. Sull’oggetto divisorio l’artista pone dei tessuti, video e immagini evocativi di quello che è uno spazio poliedrico e multifunzionale, con il quale l3 spettat3 può entrare in contatto e interagire in modo performativo.