Per raggiungere gli studi di Elena El Asmar e Luca Pancrazzi salgo una stretta scala acciottolata e mi ritrovo in uno spazio bianco e ampio, luminoso e pieno di oggetti, vernici, colori, pennelli. Specchi, quadri, cassetti. Ogni elemento che riempie la stanza è messo in risalto dalla luce che filtra dalle finestre con le tende ripiegate a distaccare l’uno dal tutto, il dettaglio da strati e strati di materiali. Cerco qualcosa con lo sguardo, «vieni, da qui si sale al piano di sopra, fai attenzione».
Salgo su per una scaletta di legno molto stretta, praticamente al buio, in pochi secondi l’atmosfera cambia completamente e mi sembra di arrampicarmi verso la stanza segreta di un castello o il sottotetto di una tenuta vittoriana, quei luoghi raccolti e scricchiolanti dove di solito ci sono i fantasmi o comunque qualche mistero.
Sono sopra gli studi, appena sotto il tetto, devo abbassarmi un po’ per camminare tra le travi di legno che disegnano lo spazio stringendosi in alto e allungandosi ai lati, lasciando libero il centro, dove l’installazione di Sergio Breviario è una lunga cornice per due disegni. La lunghissima cornice si apre tra le due opere che si fissano, una di fronte all’altra, divise tra loro dallo spazio lasciato all’osservatore per decidere se intervenire e interrompere il dialogo oppure no. I disegni realizzati a grafite sono un volto quieto, sinistro, direi in ascolto e c’è poi qualcos’altro, uno specchio, un lenzuolo bianco, un volto, il mio volto quando m’inserisco tra loro, visibile a loro. Intorno piccole sculture di bronzo sono punti luce e frammenti di un corpo, e come candele accese al buio portano con sè le memorie di qualcosa che è stato e che vive nei luoghi, i ricordi, le storie e i racconti, nelle presenze visibili e invisibili. Scendo a fatica la scaletta di legno, gli occhi abituati al buio e scrollo via un po’ di terriccio, polvere e suggestioni goth da sotto le scarpe, saluto e uscendo noto in un angolo una minuscola scritta incorniciata, “blow flow raw”.