Avvicinarsi alla natura spesso significa commettere un atto di violenza, imposizione di un’identità fortemente culturalizzata. Il vulnus, in questo caso, viene visto come ferita necessaria, inferta per potersi appropriare di un linguaggio non più culturale ma cultuale, che cerca di integrare l'intervento umano nell'approccio a territori ancora inesplorati. Senza scadere in una retorica ambientalista moraleggiante, ma con il genuino intento di "toccare" fisicamente e problematizzare il rapporto con un sistema di oggetti che hanno completamente perso il loro valore funzionale. Nello schiacciamento dell'inutilità dettata dal vuoto di valori si trova invece forza nell'istituzione di un discorso condiviso.
Così il lavoro di Miriam Montani si carica di un’accezione quasi alchemica, in cui la figura della morte stampata su carta sublima, come le polveri dalle quali è costituita, e esorcizza il terrore per un evento inevitabile, naturale. Nelle installazioni di Vincenzo Zancana e Claudia Petraroli l'opera riconduce ad una lettura fisica e quasi tattile. Nel primo caso con un dispositivo dal carattere epidermico, nel quale il materiale –volutamente alieno alla natura- è la pelle sulla quale viene registrato un archivio di sensazioni legate al territorio di origine dell'artista, impietosamente appeso come carne da macello: martoriato nella forma, ancora prima che nella sua concettualizzazione. Nel secondo caso, gli oggetti esposti materializzano un feticismo per il corpo che diventa tangibile. Elementi prostetici che, come talismani, esorcizzano il continuo inseguimento di un modello al quale conformarsi. Le fotografie di Francesco Quarato suggeriscono un'ulteriore idea di avvicinamento. La conoscenza, dettata dal caso, con un senzatetto diventa il pretesto per toccare con mano una realtà apparentemente lontana, della quale niente ci è dato conoscere e nella quale siamo brutalmente catapultati.
Quest’avvicinamento ha un costo: costringe l’artista ad accettare una condizione di inadeguatezza, di limite. Al contempo conduce a realizzare l’inevitabile immanenza della realtà di fronte alla quale si è posti, tanto come spettatori quanto (e in maniera forse più traumatica) come artisti. La materia trova così il giusto respiro, e la ferita entra in un lento processo di rima