All’ultimo piano di una milanesissima casa di ringhiera, proprio nel cuore di Chinatown, in via Francesco Landonio 22, lo studio di Giorgio Bulzi apre al pubblico i propri interni docili e sottili. Si respira aria colloquiale, distesa, il sostare è lieto e il riunirsi sotto questo tetto di quattro giovani artisti non poteva che essere più sereno. Nonostante intrinseche differenze tematiche e materiche si capisce che il collaborare nel corso della residenza è stato lieto, fatto di attimi di illuminazione, un lucido comporre passi d’artista. Si tratta di animi dalla spiccata volontà introspettiva, dal pensiero che è pronto a cantare, a smuovere e pizzicare anche uno dei concetti più complicati: la morte. Questa compare come lieve tocco di polvere, questa è vinta da un dimorare stanco ma non arreso, ora è indagata nel suo essere di carne, per poi diventare traslucida sagoma pronta a svelare l’arcano di una sofferenza appesa.
Gli artisti riuniti da Bulzi sono una mensa per lo spirito e anche ciò che parrebbe di peso è trasportato in volo, dimostrando che ogni cammino è di per sé una via iniziatica. A questa compagine vorrei raccontare da Praga Magica di Ripellino: c’era una volta il rabbino Jeuda Low che per difendere la comunità ebraica dai continui attacchi nel pieno barocco della capitale di Rodolfo II, decise di dare alla materia grezza un soffio di Verità e la rese si viva da farne un’arte prodigiosa in grado di seguire comando scritto in cartiglio, questa grande opera vivente, altresì detta Golem, tornava a essere inerme con il formulare la parola Morte, ma un giorno il prodigio sembrò non essere più gestito dal creatore e quella che era stata una difesa divenne una condanna per la comunità, e quando riuscì a domare il gigante fuori controllo, il rabbino si nascose per sempre nella soffitta più angusta della città, nella sinagoga Vecchia-Nuova. Questo per ricordare a me stesso e a qualsiasi creatore che quel che c’è di morto lo si afferra davvero solo esaurendolo – morte è rotar nell’uno.