Arrivata a Aether & Hemera studio ho subito avuto la necessità di riflettere sull’architettura, lo spazio e la luce. Ogni opera aveva in sé una natura progettuale e architettonica ma anche un lato umano da esperire, conferito dalle variazioni luminose che sembravano far respirare lo spazio. Ho pensato a Le Corbusier e ad una sua frase: “L’architettura è il gioco sapiente, rigoroso e magnifico dei volumi sotto la luce”.
Ed era proprio così, un gioco tra materiale e immateriale, presenza e non presenza: era possibile ignorare pareti fisiche e percepirne di esistenti. Entro e mi accoglie un infinito luminoso: lo osservo, mi fermo, giro attorno ed esso in una sorta di cantilena visiva varia di colore, intensità e intermittenza, quasi a voler essere ipnotico. Sento subito che la luce mi colpisce e mi concede percezioni diverse ad ogni suo minimo cambiamento, ma anche lo spazio muta come se improvvisamente avesse acquisito vita.
Continuo a camminare, imbocco un corridoio dove sono esposti dei moduli in compensato marino di diverse misure che sembrano cambiare forma ogni volta che la luce li colpisce e trovo interessante vedere che la stessa artista Michela Zanini era l’autrice di un’opera posta all’esterno nella quale mi ci ero infilata poco prima: una struttura abitabile fatta da moduli identici ma di diverse dimensioni. Nel modo in cui la luce si inserisce all’interno di un edificio creando unione verso l’esterno così lei ha creato un filo invisibile che si muoveva tra dicotomie dentro-fuori, solido-piatto, finito-infinito. Seguendo poi le sfumature di colore che si creano sulle pareti arrivo alle “trappole” di Marta Longa: una, un telaio bianco dove è stato tessuto un timido filo di nylon che si vedeva solo quando la luce lo colpiva e lui così ti chiamava a sé con un scintillio, come una ragnatela. Le altre due all’apparenza sembravano tele semplicemente bianche - le indagavi e le interrogavi ma non ti davano risposta. Solo con un po’ di pazienza si mostravano e vedevi piccoli disegni che sembravano non essere mai esistiti prima di quel tuo sguardo.
Procedo ancora, sempre più curiosa e protagonista (ogni opera non si attivava senza un’interazione personale). All’improvviso, mentre cammino, si proietta sopra di me un fascio luminoso che riconosco essere l’effettiva pianta dello spazio - Il progetto alla fine non è altro che la solidità in potenza. L’artista questa volta è Andrea Como, lo stesso che poco prima aveva dato vita ad un’opera che si stava realizzando mente tutti noi eravamo lì. Era una griglia, elemento di partenza per la progettazione architettonica, realizzata con lumini di cera che noi spettatori dovevamo accendere, uno alla volta, passandoci il testimone-fuoco. La luce delle candele danzava nel buio creando giochi di sfumature di grigi che si ricreeranno una volta che la cera sarà sciolta lasciando traccia della nostra stessa presenza, tuttavia non abbiamo idea di come lo faranno - tra progetto e la sua realizzazione c’è sempre la nostra imperfettibile umanità.