Non è un sogno, non è una follia, Youkali esiste dal 2018 e si trova in un vecchio magazzino in piazza Carlo Amati 3, quartiere Forze Armate. Ad accogliermi sono gli artisti che si dividono lo spazio dello studio come se fossero le sezioni distinte di uno stesso cranio, dentro il quale si percepisce il brulicante lavorio delle loro menti. L’intento è quello di esporre non solo le opere nella loro versione finale, ma di mostrarne il procedimento, il farsi in divenire della ricerca artistica. Per quanto eterogenea, questa si sviluppa attorno ad alcuni elementi chiave: l’uso dell’elemento naturale, l’accidentalità del percorso e la ricerca di un equilibrio.
Davanti alle eleganti opere di Léa Dumayet ci si trova a riflettere sul labile confine tra stabilità e instabilità, poiché tutto è in bilico e si regge grazie ad un gioco di bilanciamenti delicatissimi e di tensioni estreme. La stessa tensione regola anche la scelta per contrasto dei materiali, diverse tipologie di metalli sono saldate a rami d’albero, steli di fiori essiccati, corde di juta e altri naturalia che l’artista raccoglie e archivia su una scaffalatura industriale. Materiali invero degni di una wunderkammer sono quelli scelti scrupolosamente da Yari Miele, come l’onice messicana e la pietra blu del Belgio, che ha la peculiarità di inglobare al suo interno fossili di conchiglie visibili a seguito del processo di levigatura. Miele indaga gli effetti della luce sulla materia, in particolare attraverso una serie di sculture realizzate con tessuto catarifrangente. Contrariamente alla prassi comune che impone il divieto di usare il flash in musei e gallerie, qua veniamo esortati ad attivarlo: è infatti grazie al lampo di luce che le forme di un grigio apparentemente anonimo prendono vita negli schermi del telefono, in modo sempre unico e imprevedibile a seconda dell’intensità del flash e dell’inquadratura. Le connessioni imprevedibili tra fonti iconografiche distanti sono alla base del lavoro di Margaux Bricler, che riesce a far dialogare le incisioni dell’Apocalisse di Dürer con il gesto della P38 delle Brigate Rosse, o la vicenda biblica di Salomè con “Psycho” di Hitchcock. Mi racconta come queste folgorazioni avvengano a volte per pura casualità, magari sfogliando un quotidiano, o emergano spontaneamente dal suo inconscio, alimentato dall’investigazione sulle phatosformel e dagli studi storico-artistici. È, infine, grazie ad una tecnica classica della storia dell’arte che Fabio Roncato riesce a realizzare quella che per tanti è una chimera: cristallizzare una frazione di tempo. L’artista immerge blocchi di cera nel fiume Brenta o nei suoi affluenti e lascia che lo scorrere dell’acqua plasmi la materia, che prende forme bizzarre e inattese; in seguito, attraverso la fusione a cera persa, giunge allo stadio finale della scultura in lega di alluminio. Per Roncato questo significa poter trasformare l’istante in qualcosa di duraturo e tangibile ed è il suo modo di rendere visibile per il tramite dell’arte ciò che di solito non è rappresentabile né immaginabile visivamente.