Premetto che non è per nulla facile raccontare l’esperienza di incontrare la personalità di Veronique Pozzi Painè e del suo studio. Sono appena uscita e mi sono messa subito a scrivere per non perdere la carica emozionale che ho ricevuto stando con lei. Siamo rimaste lì per più di tre ore - non c’erano quadri esposti, non c’era un percorso logico. Erano lei, il suo studio e le contaminazioni di Marco Mancini. Ci ha accolto con i suoi occhi azzurri sorridenti, occhi pieni di vita e di passione, poi ci ha prese per mano e condotte tra le pagine della sua vita.
Entro e incontro altre due ragazze, palesemente catturate da lei e dallo spazio. L’atelier è enorme e travolgente, tutto bianco e dagli spazi inusuali, palchi e palchetti distribuiti ogni dove con una quantità di materiale e di opere incredibile - una vera e propria officina d’arte che qua e là si trasforma in una wunderkammer. Sì, perché Veronique ci racconta che la sua vita oscilla tra le creazioni e il viaggio. Ha passato l’esistenza alla scoperta del mondo e dei suoi segreti, o meglio ancora dei pezzi dimenticati dalla storia. Una collezionista dell’abbandono. Ci mostra cimeli storici, che ancora oggi hanno tanto da dire e racconta di averli trovati abbandonati sulle strade che lei ha percorso. Germania, India, Giappone ecc… ha persino un antichissimo 45 giri - avete presente quelli fatti ancora in cartone? Sul quale c’era registrata una Polka o fotografie probabilmente gettate perché figlie di un matrimonio non andato a buon fine. Ogni singolo oggetto era stato salvato dalla distruzione, per quanto minuscolo fosse e riutilizzato all’interno del suo lavoro. La carta e il cucito sono il fil rouge, attivatori di nuova vita, presenti in quasi tutti i suoi lavori ma, coerentemente con la sua filosofia, è impossibile sintetizzare la sua implacabile necessità di cambiamento; la sua arte è in costante divenire e si slega piacevolmente da categorizzazioni di alcun tipo. Si può vedere il fuoco, il punk, il dissacrante e subito dopo nebulose eteree, una placida calma, una carezza…
In questo turbinio estetico ci ritroviamo a sfogliare dei meravigliosi libri d’artista: alcuni sono sue opere, altri i lavori di suoi utenti realizzati durante laboratori di arte e terapia che porta avanti con Mancini, ma lei non fa distinzione di alcun genere nel raccontarceli. E allora mi arriva in mano un libro, proprio di Mancini, che si intitola DELLA FORZA DELLA FRAGILITA’; appena dopo lo stesso, ma questa volta un po’ diverso, divenuto un libro d’artista. Sfogliandolo troviamo le medesime poesie o strofe presenti negli altri libri e quindi il titolo diventa sintesi ed emblema della sua, della loro poetica. La fragilità del non visto, dell’abbandonato, che porta in sé una forza in potenza che va solo ascoltata e aiutata a venir fuori. Non sai come sarà il modo per farlo, ma basta dargli nuova attenzione e sarà essa stessa a guidarti.