Fortunatamente, non si sa mai bene a cosa si va incontro entrando in uno studio d’artista. E, ancor meno lo si sa quando, in quello studio, si sono incontrati per la prima volta artisti diversi. Ma, certamente, in modo più o meno inconscio, il titolo della mostra orienta le attese del visitatore. E, dunque, il titolo: “Versificare”. Lo ammetto, credevo (o forse temevo) che mi sarei trovata di fronte a opere con un approccio fin troppo didascalico. Ma, invece, non un “verso” –in senso strettamente segnico- è presente in mostra. Finalmente, penso. Non perché la parola non sia importante, anzi. Dopo questi così infiniti mesi trascorsi (per molti e più motivi) a soffocare l’immaginario e a usare –purtroppo e troppo spesso- parole su parole in comunicazioni appesantite e a volte vuote, qui tre artisti di quella parola –la più sacra, quella poetica- portano “solo” le tracce. Ne elevano, così, il suo valore immateriale. La poesia è solo evocata. È l’elemento di studio che accomuna il loro sguardo. È l’immateriale che diventa un fare, “versificare” appunto. Non un’analisi di un testo poetico, ma un accostamento che diventa dialogo con esso. Arti diverse che esprimono, nella reciproca commistione, i loro linguaggi.
E, così, Taher Nikkhah rilegge testi persiani che spiegano come creare sculture. Ascolta quelle parole e sceglie di usare la stessa tecnica suggerita dalla poesia. Realizza due corone in stucco veneziano e fa emergere tutta la simbologia del suo paese nativo. Roberto Urso, invece, indaga la pura forma della poesia persiana. Ne ricrea la composizione, una partitura su due colonne: i suoi quadri diventano le parole e gli spazi vuoti le giuste pause tra le emozioni evocate dalle parole stesse (quelle originali del testo persiano) e trasferite su i suoi lavori, parole visive.
“Un tempo gli alberi avevano occhi” di Ana Blandiana è la poesia scelta da Laurentiu Craioveanu. Amante della natura, studia i processi naturali che portano alla genesi della forma. Unisce tecnica e materiali tradizionali (frottage grafite su tela) allo studio tattile delle cortecce e vuole, così, parlare del cambiamento che tutti –più volte- ci troviamo ad accogliere. Il lenzuolo nel quale è impressa la sagoma della corteccia è quella pelle che cambiamo, ma della quale si vuole tenere memoria.