Non è una posa quella che viene catturata dalle setole colme di acrilico nella pratica di Giovanni B. Tresso. Un dono, quello dello sguardo, che inchioda davanti allo specchio lo spettatore, che nella cornice di uno studio di comunicazione rimaneggiato ad atelier, in via Rivoli 2, all’ombra del Piccolo Teatro di Milano, si sposta su tre livelli differenti della riflessione intimista dell’artista sul ritratto.
Cosa vuol dire ritrarre? Una azione istintiva che fa protendere verso l’alterità, in un periodo come quello della distanza interpersonale e delle protezioni di contenimento personale, che a molti è sembrato un limite; non per Tresso che nel dettaglio di una espressione riesce a rivedere un mondo ampio, ricostruire l’identità a partire da sovrapposizioni di diversi ritratti fotografici e restituirla in un impasto cromatico denso di vita.
Sono, fin da principio, chiarissimi i riferimenti iconografici, a cui Tresso non nega di puntare, sono i ritratti pop saturi di Andy Wahrol, ma questo è solo un indice di apparenze, perché, seppur vero che tra i volti ritratti ci sono celebrità del piccolo schermo e del mondo dell’industria veneta, ammettendo anche che il lavorio è una mimetica fotografica, Tresso aggiunge quella necessità materica, quella ricerca d’un chiaroscuro di ombre proiettate decisamente attuale.
Salutata così la riflessione sul sè all’accoglienza, che grida e dimena da uno sfondo giallo che segnala la presenza, ci si avvia al secondo piano: la sala conferenze diventa una cappella privata di 12 tele 120x80 disposte sulle pareti, lo sfondo è impallidito in questo secondo ambiente e il giallo si fa un parlare sommesso, tendente al neutro, sporcandosi di terra.
Ma sarà nel cuore dello studio, nella terza sala, seminterrata, che lo spettatore troverà una videoperformance montata da DYProject che esalta una amicizia decennale tra l’artista e il ballerino Samuel Peron: il ritratto è fare dell’intimità una eternità.
Grazie Giovanni B. Tresso, o per chi ha l’ardire di domandare, T-rex!